ebook img

Chi ama torna sempre indietro PDF

126 Pages·2009·0.72 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Chi ama torna sempre indietro

GUILLAUME Musso chi ama torna sempre indietro Se ci fosse concesso dì tornare indietro nel tempo, quale dolore, quale rimorso, quale rimpianto vorremmo cancellare? Cambogia, settembre 2006. Elliott Cooper, sessantenne chirurgo di San Francisco, è impegnato in una missione umanitaria in una zona infestata dalle malattie e dalle mine antiuomo. Mentre i colleghi si preparano a ripartire, Elliott si attarda per operare un bambino con una malformazione al viso. Il capo villaggio, nel ringraziarlo per avere restituito il sorriso al piccolo, gli domanda: "Se avesse la possibilità di esaudire un desiderio, cosa vorrebbe?" Senza esitare, spinto dall'urgenza di un inestinguibile rimpianto, il medico risponde: "Rivedere una donna" Ilena, il suo unico amore mai dimenticato, morta trent'anni addietro: il vuoto che ha lasciato è incolmabile, nonostante la vita di Elliott sia stata premiata dal successo professionale e addolcita dalla presenza di un grande amico, Matt, e di una figlia adorata, Angie. Il vecchio a quel punto gli porge un flaconcino di vetro, contenente dieci pillole dorate... San Francisco, settembre 1976. Elliott ha trent'anni e il futuro si presenta radioso: non solo ha davanti a sé una promettente carriera come chirurgo, ma soprattutto ha Ilena, bella come una fiamma, che si occupa di orche e delfini al ocean World di Orlando, in Florida. La ama profondamente, il loro sentimento è forte abbastanza da sopravvivere alla distanza, eppure separarsi è ogni volta un po più difficile. Particolarmente oggi che si sono salutati con un litigio... ed è proprio a questo che sta pensando Elliott mentre sorseggia un caffè al bar dell'aeroporto. All'improvviso, al di là della vetrata, scorge un uomo sulla sessantina dall'aria smarrita, scalzo e in pigiama, che lo fissa. Gli si avvicina e nota turbato che ha un'aria famigliare: gli ricorda in modo incredibile il padre, morto qualche anno prima. Quando, perplesso, gli chiede chi sia, riceve una risposta che lo lascia fulminato: "Io sono te, Elliott. Sono te fra trent'anni". La magia del vecchio stregone cambogiano ha evidentemente compiuto il miracolo: Elliott ha la possibilità di tornare indietro nel tempo e forse di cambiare il tragico corso degli eventi. Ma ogni azione porta con sé una conseguenza: salvare Ilena significherebbe dover rinunciare all'altro suo grande amore, la figlia... Ancora una volta Guillaume Musso riesce a stregarci con la sua unica, riuscitissima formula che mescola amore, suspense e soprannaturale in una storia che conquista per l'intensità con cui sa parlarci di sentimenti, non solo fra un uomo e una donna, ma anche fra genitori, figli e amici. E che ci pone come sempre di fronte al tema del destino, e del peso che le scelte che compiamo, a volte senza riflettere, hanno nella costruzione delle nostre esistenze. GUILLAUME Musso è nato nel 1974 ad Antibes, nelle Alpi Marittime, dove ancora oggi vive e dove insegna scienze economiche. Figlio di una bibliotecaria da cui ha ereditato l'amore per i libri, scrive di notte, nei fine settimana oppure in treno, mentre si reca a Parigi dalla compagna. Il suo romanzo d'esordio L'uomo che credeva di non avere più tempo (Sonzogno, 2005) è un bestseller internazionale da cui verrà tratto un film, e altrettanto successo ha avuto La donna che non poteva essere qui (Sonzogno, 2006) Chi ama torna sempre indietro è ai vertici delle classifiche dei libri più venduti in Francia e verrà pubblicato in 18 Paesi. In copertina: ©Trevillion images/Oystein Ruud Progetto grafico di Laura Carenzi www.sonzogno.eu 1 Primo incontro Un bel giorno il futuro si chiama passato. E a quel punto che voltiamo le spalle e vediamo la nostra gioventù. Luis ARAGON AEROPORTO DI MIAMI SETTEMBRE 1976 ELLIOTT HA TRENT'ANNI È una domenica pomeriggio di settembre, sotto il cielo della Florida. Al volante di una Thunderbird decappottabile, una giovane donna percorre la strada che conduce al terminal. Procede a velocità sostenuta, con i capelli al vento, e supera diverse auto prima di fermarsi davanti alla sala partenze per far scendere l'uomo seduto sul sedile passeggeri. Lui prende la borsa dal bagagliaio, si china sul finestrino e manda un bacio alla guidatrice. Poi sbatte la portiera ed entra nell'edificio di vetro e acciaio. L'uomo è Elliott Cooper, e ha un bel fisico longilineo. Fa il medico a San Francisco, ma con quel giubbotto di pelle e quei capelli ribelli sembra quasi un adolescente. Si dirige meccanicamente al check-in per prendere la carta di imbarco del volo Miami-San Francisco. "Scommetto che già ti manco..." Stupito di sentire quella voce familiare, Elliott si gira di scatto. La donna, la stessa di prima, lo guarda con occhi di smeraldo carichi di sfida e insieme tenerezza. Porta un paio di jeans dalla vita bassa, una giacca di daino attillata su cui spicca il distintivo "Peace and Love" e una T-shirt con i colori del Brasile, suo Paese d'origine. "Qual è stata l'ultima volta che ti ho baciata?" chiede lui posandole una mano sul collo. "Ben un minuto fa." "Un'eternità", mormora lui stringendola a sé. La ragazza è Ilena, la donna della sua vita. La conosce da dieci anni e le deve tutto il meglio di sé: è stata lei a spingerlo verso la professione di medico, lei a indurlo ad aprirsi agli altri, lei a ispirargli un certo rigore nell'etica personale. È stupito che lo abbia seguito al terminal: in genere preferiscono evitare i lunghi addii, consci di come quei pochi minuti in più passati insieme procurino alla fine più sofferenza che conforto. Il fatto è che la loro è una storia complicata. Lei vive in Florida, lui a San Francisco. Il loro amore a distanza deve fare i conti con i quattro fusi orari che li separano, e con i quattromila chilometri che separano la costa est da quella ovest. Certo, dopo tanti anni avrebbero potuto decidere di convivere. Ma non l'hanno fatto. All'inizio temevano il logorio indotto dall'abitudine; perché, se da un lato la quotidianità ti rende la vita più tranquilla, dall'altro ti priva di quegli impeti del cuore che loro continuano a provare ogniqualvolta si incontrano e da cui traggono ossigeno. Inoltre, l'uno è ben integrato nel suo ambiente professionale sulla costa pacifica, l'altra lo è altrettanto sulla costa atlantica. Dopo i lunghi studi di medicina, Elliott è stato assunto come chirurgo in un ospedale di San Francisco. Ilena, invece, è una veterinaria che si occupa di orche e delfini presso l'Ocean World di Orlando, il più grande parco marino del mondo. Da qualche mese si dedica attivamente anche a Greenpeace, un'organizzazione che comincia a far parlare di sé. Fondata quattro anni prima da un gruppo di ecologisti e pacifisti militanti, la lega dei "combattenti dell'arcobaleno" si è fatta conoscere grazie alla sua battaglia contro i test nucleari. Ma Ilena è entrata nel gruppo soprattutto per partecipare alla campagna contro il massacro delle foche e delle balene. I due giovani hanno dunque una vita piena dove non c'è spazio per la noia. Tuttavia... ogni nuova separazione diventa più intollerabile della precedente. "Imbarco immediato per tutti i passeggeri del volo 711 con destinazione San Francisco, uscita numero 18..." "È il tuo aereo?" domanda Ilena liberandosi dall'abbraccio. Elliott annuisce. Poi, siccome la conosce bene, chiede: "Volevi dirmi qualcosa prima che partissi?" "Sì", dice lei prendendolo per mano. "Ti accompagno al cancello di imbarco." Mentre gli cammina a fianco, inizia una filippica con quel lieve accento sudamericano che a lui fa tanta tenerezza. "Il mondo corre verso la catastrofe, Elliott: la guerra fredda, la minaccia comunista, la corsa agli armamenti nucleari..." Ogni volta che si separano, lui la guarda come se non dovesse rivederla più. È bella come una fiamma. " l'esaurimento delle risorse naturali; per non parlare dell'inquinamento, della distruzione delle foreste tropicali e del..." "Ilena." "Sì?" "Dove vuoi arrivare, esattamente?" "Vorrei che avessimo un figlio, Elliott." "Così, su due piedi, all'aeroporto? Davanti a tutti?" Solo questo Elliott riesce a dire: una battuta per mascherare la sorpresa. Ilena però non ha voglia di ridere. "Non sto scherzando, anzi ti prego di rifletterci seriamente", gli raccomanda prima di staccare la mano dalla sua e dirigersi all'uscita del terminal. "Aspetta! " fa lui cercando di trattenerla. "Questo è l'ultimo avviso per il signor Elliott Cooper, passeggero del volo 711 con destinazione..." Sta per salire a bordo, quando si gira per rivolgerle un ultimo cenno di saluto. Il sole di settembre inonda la sala partenze. Elliott agita la mano, ma Ilena è già scomparsa. Era scesa la sera quando l'aereo atterrò a San Francisco. Dopo sei ore di volo, erano le nove passate in California. Elliott stava per uscire dal terminal e prendere un taxi, quando tornò sui suoi passi. Moriva di fame. Turbato dalla proposta di Ilena, non aveva toccato il vassoio di spuntini che gli avevano servito in aereo e sapeva di avere il frigorifero vuoto, a casa. Alzando gli occhi vide, al secondo piano, il Golden Gate Café, dov'era già stato con il suo migliore amico, Matt, che a volte lo accompagnava sulla costa est. Si sedette al banco ordinando un'insalata, due bagel e un bicchiere di chardonnay. Stanco per il jet-lag, si strofinò gli occhi; poi chiese dei gettoni, andò alla cabina telefonica in fondo alla sala e compose il numero di Ilena. Nessuna risposta. In Florida era mezzanotte passata. Ilena era sicuramente a casa, ma era chiaro che non voleva parlargli. Non c'è da stupirsene. Tuttavia non si pentiva di avere reagito in quel modo alla sua proposta. La verità era che lui di figli non ne voleva. Ecco tutto. Non era questione di sentimenti. Adorava Ilena e aveva amore da vendere; eppure l'amore non bastava. Era convinto che nel clima politico degli anni Settanta l'umanità non stesse andando nella direzione giusta e poi, per dire la verità fino in fondo, non aveva nessuna voglia di assumersi la responsabilità di mettere al mondo un figlio. Un discorso che lei non voleva intendere. Tornato al banco, finì di mangiare e ordinò un caffè. Era nervoso e, quasi senza accorgersene, fece crocchiare le dita. Nella tasca della giacca sentì il pacchetto di sigarette che gli lanciava il suo richiamo e non resistette alla tentazione di accendersene una. Certo, avrebbe fatto meglio a smettere di fumare. Nell'ambiente medico si parlava sempre di più dei danni prodotti dal tabacco. Da una quindicina d'anni la ricerca scientifica dimostrava che la nicotina produceva dipendenza e lui, come chirurgo, sapeva benissimo che i rischi di cancro al polmone e di malattie cardiovascolari erano più elevati nei fumatori. Come molti medici, però, si occupava più della salute altrui che della propria. D'altronde viveva in un'epoca in cui era ancora normale fumare in un ristorante o su un aereo; un'epoca in cui l'atto di fumare conservava un suo fascino e denotava libertà culturale e sociale. Smetterò presto, ma non stasera, pensò aspirando una voluta di fumo. Si sentiva troppo depresso per imporsi un simile sacrificio. Con aria svagata contemplò il mondo di là dalla vetrata del caffè e scorse un uomo che, vestito bizzarramente con un pigiama azzurro cielo, sembrava scrutarlo con estrema attenzione. Strinse gli occhi per guardarlo meglio. L'uomo era sulla sessantina, un'aria ancora atletica e una barba corta leggermente brizzolata che lo faceva somigliare al Sean Connery della vecchiaia. Elliott aggrottò la fronte. Che cosa ci faceva, scalzo e in pigiama, a un'ora così tarda nel terminal dell'aeroporto? Certo, non erano affari suoi, ma una forza ignota lo indusse ad alzarsi e uscire dal locale. L'uomo sembrava smarrito, come fosse piombato lì da chissà dove. Avvicinandosi, Elliott fu colto da un senso di malessere che non osò confessarsi. Chi era quell'individuo? Forse un paziente fuggito da un ospedale o da un altro istituto? E se così fosse stato, lui, come medico, non avrebbe avuto il dovere di aiutarlo? Quando fu a meno di tre metri di distanza, comprese finalmente che cosa lo avesse turbato: l'uomo gli ricordava stranamente suo padre, morto cinque anni prima per un cancro al pancreas. Sconcertato, fece ancora qualche passo verso di lui. Da vicino la somiglianza era davvero incredibile: la stessa forma del viso, la stessa fossetta sulla guancia che lui aveva ereditato. E se fosse davvero lui? No, che cosa andava a pensare? Il padre era morto e sepolto e lui aveva assistito al suo funerale e alla sua cremazione. "Posso aiutarla, signore?" disse. L'uomo indietreggiò. Dava l'impressione di una persona insieme forte e vulnerabile, e sembrava altrettanto turbato di lui. "Possa aiutarla?" ripetè il giovane medico. "Elliott..." mormorò l'altro. Come faceva a conoscere il suo nome? E quella voce! Dire che tra Elliott e suo padre non c'era mai stata intesa era un autentico eufemismo, ma, ora che il padre era morto, il figlio a volte rimpiangeva di non aver cercato di comprenderlo di più. Si sentiva inebetito. Pur rendendosi perfettamente conto dell'assurdità della domanda, non potè fare a meno di chiedergli, con voce rotta dall'emozione: "Sei tu, papà?" "No, Elliott, non sono tuo padre." Curiosamente, quella risposta razionale non lo rassicurò affatto; anzi, ebbe quasi l'impressione che la notizia più incredibile dovesse ancora arrivare. "Mora chi è, lei?" L'uomo gli posò una mano sulla spalla. Con gli occhi che brillavano di una luce familiare, esitò qualche secondo, poi rispose: "Io sono te, Elliott". Elliott fece un passo indietro, poi si irrigidì come se fosse stato fulminato. "Sono te fra trent'anni", specificò l'uomo. Io fra trent'anni? Elliott allargò le braccia, senza capire. "Che cosa intende dire?" L'uomo aprì la bocca, ma non ebbe il tempo di proferire verbo, perché un fiotto di sangue gli colò dal naso, cadendo a grosse gocce sul bavero del pigiama. "Butti indietro la testa", gli ordinò Elliott tirando fuori di tasca una salvietta di carta che aveva preso meccanicamente al Golden Gate Café. La incollò al naso dell'uomo che adesso considerava suo paziente e con tono rassicurante aggiunse: "Stia tranquillo, non è niente". Per un istante rimpianse di non avere dietro la valigetta da medico, comunque l'emorragia si arrestò presto. "Venga con me. Bisogna che le sciacqui il viso con acqua fresca." L'uomo lo seguì senza obiettare; appena arrivarono davanti alla toilette, fu colto all'improvviso da un piccolo tremito che pareva l'inizio di un attacco epilettico. Elliott fece per aiutarlo, ma l'altro lo respinse con forza, gridando: "Lasciami!" e aprendo da solo la porta del bagno. Frenato nello slancio, il giovane medico decise di aspettare fuori. Non voleva abbandonare lo sconosciuto, che non sembrava affatto in buona salute. Che strana storia. All'inizio la singolare somiglianza fisica con il padre, poi quella frase assurda, io sono te fra trent'anni, e adesso l'epistassi e i tremiti. Cazzo, che giornata! La permanenza alla toilette cominciò a essere eccessiva. Elliott entrò e ispezionò prima di tutto la fila di lavandini. Non c'era nessuno. La toilette non aveva né finestre né uscite di sicurezza: l'uomo quindi doveva essere in una delle cabine. "eli, signore?" Silenzio. Temendo che fosse svenuto, Elliott corse ad aprire la prima porta, poi la seconda, la terza, la quarta, fino alla decima, e non trovò nessuno. Come ultima risorsa, alzò gli occhi al soffitto: nessun pannello spostato. Pareva impossibile, eppure bisognava arrendersi all'evidenza: l'uomo era scomparso. 2 Il futuro mi interessa: è lì che ho intenzione di passare i miei prossimi anni. WOODYALLEN SAN FRANCISCO SETTEMBRE 2006 ELLIOTT HA SESSANTANNI Elliott aprì gli occhi all'improvviso. Era steso di traverso sul letto, con il cuore che batteva all'impazzata e il corpo inzuppato di sudore. Che incubo orrendo! Lui, che non si ricordava mai i sogni, ne aveva fatto uno stranissimo: stava vagando per 1 aeroporto di San Francisco, quando si era imbattuto nelà suo doppio. Ma un doppio più giovane, che pareva altrettanto stupito di lui nel vederlo. Tutto gli era parso così reale e sconcertante, come se fosse stato proiettato davvero trentanni indietro. Premette il pulsante per sollevare gli avvolgibili e buttò un'occhiata inquieta sul comodino, al flacone che conteneva le pillole dorate. Lo aprì: ne restavano nove. La sera precedente, prima di addormentarsi, ne aveva inghiottita una per curiosità. Che fosse stata quella a provocare il singolare sogno? Il vecchio cambogiano che gli aveva dato la boccetta era stato evasivo in merito agli effetti, anche se gli aveva vivamente raccomandato di non "usarlo mai per altro scopo che quello previsto" Elliott si alzò a fatica e si diresse alla veranda che dava sul lungomare. Da lì godeva una vista panoramica dell'oceano, dell'Isola di Alcatraz e del Golden Gate. Il sole nascente proiettava sulla città una luce granata le cui sfumature mutavano di minuto in minuto. Al largo, vele e ferry-boat si incrociavano suonando le sirene per la nebbia e, nonostante l'ora mattutina, alcuni jogger stavano già correndo lungo Marina Green, il grande prato che costeggiava il lungomare. Guardando il paesaggio familiare si calmò un poco. Senza dubbio avrebbe presto dimenticato quella notte agitata. Si era appena convinto di avere solo fatto un brutto sogno, quando, guardando la propria immagine nella vetrata, notò qualcosa di inquietante: una macchia scura sulla giacca del pigiama. Abbassò gli occhi per esaminarla meglio. Sangue? Gli battè forte il cuore, ma presto si calmò. Evidentemente aveva perso sangue dal naso durante la notte e proiettato nel sogno l'evento reale. Era un processo normalissimo, del quale non era il caso di preoccuparsi. Parzialmente rassicurato, andò in bagno per fare la doccia prima di recarsi al lavoro. Regolò il getto d'acqua e, mentre la stanza si riempiva di vapore, restò un attimo fermo a riflettere. C'era qualcosa che lo tormentava ancora, ma cosa? Stava già svestendosi, quando un'improvvisa intuizione lo indusse a frugare nella tasca del pigiama, dove trovò una salvietta di carta macchiata di sangue. Dietro le chiazze rosse si distingueva il profilo del più celebre ponte della città, sormontato dalla scritta: "Golden Gate Café - San Francisco Airport" Il cuore cominciò a battergli di nuovo all'impazzata e stavolta gli fu più difficile ritrovare la calma. Era forse la malattia a farlo uscire di testa? Qualche mese prima, in occasione di una fibroscopia, aveva appreso di avere un cancro al polmone. Per la verità non si era affatto stupito: non si fuma impunemente più di un pacchetto al giorno per quarantanni. I pericoli li aveva sempre conosciuti e accettati: facevano parte del rischio di vivere. Non aveva mai cercato di condurre una vita asettica e di difendersi a tutti i costi dalle incognite dell'esistenza. In certo modo credeva al destino: le cose arrivano quando devono arrivare e l'uomo ha il dovere di sopportarle. Obiettivamente era un brutto cancro, una delle forme che evolvevano più in fretta ed erano più difficili da curare. Negli ultimi anni la medicina aveva compiuto progressi in quel campo e nuovi farmaci permettevano di prolungare la vita ai malati. Purtroppo era ormai tardi per lui: il tumore non era stato individuato per tempo e gli esami avevano rivelato la presenza di metastasi in altri organi. Gli avevano suggerito di seguire il trattamento classico, un cocktail di chemioterapia e radioterapia, ma Elliott aveva rifiutato. A quello stadio non c'era più molto da fare. L'esito della battaglia era già deciso: sarebbe morto di lì a qualche mese. Lì per lì era riuscito a tenere per sé la notizia, ma sapeva che non avrebbe potuto conservare il segreto a lungo. La tosse stava diventando persistente, i dolori alle costole e alla spalla si facevano sempre più forti ed era assalito da improvvisi attacchi di stanchezza, proprio lui che aveva fama di essere infaticabile. Non era il dolore la sua principale preoccupazione. Quello che temeva di più era la reazione degli altri, in particolare di sua figlia Angie, che aveva vent'anni e studiava a New York, e di Matt, l'amico fraterno con cui aveva sempre condiviso tutto. Uscì dalla doccia, si asciugò in fretta e aprì il guardaroba. Scelse gli abiti con maggior cura del solito: camiciotto di cotone egiziano e giacca e pantaloni italiani. Mentre si preparava, l'ombra della malattia svanì e gli tornò sul viso la cera di un sessantenne ancora aitante e virile. Fino a poco tempo prima, grazie all'innegabile fascino era riuscito a conquistare donne giovani e belle che avevano a volte la metà dei suoi anni. Ma erano sempre relazioni di breve durata. Chiunque conoscesse bene Elliott Cooper sapeva che solo due donne avevano contato nella sua vita: sua figlia Angie e Ilena Cruz. Ilena era morta da trent'anni. Ma Elliott non aveva più l'età per partire in tromba e far decollare l'auto agli incroci. Quando fu all'altezza di California Street, svoltò a sinistra e incrociò un cable-car che trasportava i primi turisti a Chinatown. Prima di raggiungere il quartiere cinese, imboccò un parcheggio sotterraneo due isolati dietro Grace Cathedral e arrivò al Lenox Medical Center, dove lavorava da oltre trent'anni. Come primario di chirurgia pediatrica era considerato uno dei pezzi grossi dell'ospedale, anche se la promozione era recente e l'aveva ottenuta ormai da vecchio. Per tutta la durata della sua vita professionale si era consacrato soprattutto ai pazienti, sforzandosi, cosa rara per un chirurgo, di non snocciolare solo dati tecnici, ma di badare anche al rapporto umano. Non era interessato agli onori e non aveva mai cercato di costruirsi una rete di relazioni frequentando assiduamente i campi di golf o trascorrendo i weekend sul lago Tahoe. Tuttavia, quando i colleghi avevano un figlio da sottoporre a un intervento, era spesso a lui che si rivolgevano, perché era un ottimo professionista. Sul marciapiedi Elliott fu accolto dal sole, dalle onde e dal vento. Per un attimo assaporò la giornata nascente, poi aprì la porta del piccolo garage e salì sulla vecchia Coccinelle arancione, ultimo avanzo di un'epoca hippy ormai passata da tempo. Con la capote abbassata, si immise con prudenza sul viale e percorse Fillmore Street in direzione delle case vittoriane di Pacific Height. Le strade di San Francisco erano proprio come nei film: ripide ed erte, simili a un incredibile intreccio di montagne. "Mi puoi analizzare questo?" Elliott diede a Samuel Bellow, direttore del laboratorio dell'ospedale, il sacchettino di plastica in cui aveva infilato i residui rinvenuti sul fondo del flaconcino di pillole. "Di che si tratta?" "Sta a te dirmelo." Corse alla caffetteria, dove si fece la prima dose di caffeina, e salì al reparto per cambiarsi e unirsi alla sua équipe, composta da un anestesista, un'infermiera e una dottoressa indiana che stava facendo internato sotto la sua supervisione. Il paziente era Jack, un gracile bambino di sette mesi che soffriva di una cianosi di origine cardiaca. La malformazione cardiaca, che impediva la buona ossigenazione del sangue, gli conferiva un aspetto cianotico, irrigidendogli le dita e colorandogli le labbra di blu. Mentre si preparava a incidere il torace del lattante, Elliott non potè fare a meno di provare una certa paura, forse la stessa che ha l'attore prima di entrare in scena. Per lui le operazioni a cuore aperto continuavano ad avere un che di miracoloso. Quante ne aveva eseguite? Senza dubbio centinaia o addirittura migliaia. Cinque anni prima una troupe televisiva aveva girato su di lui un servizio nel quale aveva esaltato le sue "mani d'oro", capaci di ricucire vasi sanguigni sottili come uno spillo con l'aiuto di fili invisibili a occhio nudo. Eppure ogni volta era la stessa tensione, la stessa paura del fallimento. L'operazione durò oltre quattro ore, durante le quali le funzioni cardiopolmonari furono assunte dalla macchina cuore-polmone. Come un idraulico cardiaco, Elliott tappò il buco tra i due ventricoli e aprì una via polmonare per evitare che il sangue blu si dirigesse all'aorta. Era un lavoro minuzioso per il quale occorrevano molta esperienza e molta concentrazione. Le mani non gli tremavano, ma con una parte della mente pensava ad altro: alla propria malattia, da cui non poteva trovare guarigione, e allo strano sogno che aveva fatto quella notte. Rendendosi d'un tratto conto della propria distrazione, si sentì in fallo e tornò a rivolgere l'attenzione solo ed esclusivamente all'intervento. Quando ebbe finito, spiegò ai genitori del piccolo che era troppo presto per sciogliere la prognosi. Per qualche giorno il paziente sarebbe rimasto in rianimazione, dove la respirazione avrebbe continuato a essere aiutata meccanicamente finché, pian piano, cuore e polmoni non avessero ripreso in pieno le loro funzioni. Ancora in camice da chirurgo, uscì nel parcheggio dell'ospedale. Fu abbagliato dal sole, ormai alto nel cielo, e per una frazione di secondo provò un senso di stordimento. Si sentiva spossato, stremato, assillato da una ridda di domande. Aveva senso negare la malattia, come stava facendo? Era prudente continuare a operare con il rischio di mettere a repentaglio la vita dei pazienti? Che cosa sarebbe successo quella mattina se si fosse sentito male nel bel mezzo dell'intervento? Per riflettere meglio, si accese una sigaretta e aspirò la prima boccata con piacere. Quello era l'unico lato positivo della faccenda: poteva fumare quanto voleva, tanto ormai non avrebbe modificato in alcun modo l'evoluzione della malattia. Una folata di vento lo fece rabbrividire. Da quando aveva saputo che sarebbe morto presto, era divenuto più sensibile al mondo intorno. Sentiva quasi tisicamente la città palpitare, come se fosse un organismo vivente. L'ospedale dominava dall'alto la piccola collina di Nob Hill e da lì si udivano le vibrazioni salire dal porto e dai moli. Tirò un'ultima boccata prima di spegnere la sigaretta. Aveva preso una decisione: avrebbe smesso di operare alla fine del mese e informato la figlia e Matt della malattia. Così la storia era chiusa e non si tornava indietro. Non avrebbe mai più fatto l'unica cosa per la quale si sentiva realmente tagliato: curare gli altri. Riflettè ancora un attimo su quella decisione così difficile e si sentì vecchio e infelice. "Dottor Cooper" Elliott si girò e vide Sharika, la dottoressa che faceva internato con lui. Si era tolta il camice e adesso indossava un paio di jeans delavé e un top con le spalline. Con un gesto quasi timido gli porse un bicchiere di caffè. Trasudava bellezza, giovinezza e vita. Elliott prese il caffè e la ringraziò con un sorriso. "Sono venuta a dirle addio, dottore", disse la ragazza. "Addio?" "Il mio stage negli Stati Uniti finisce oggi." "Già, è vero che riparte per Bombay", si ricordò lui. "Grazie della sua accoglienza e della sua gentilezza. Ho imparato molto lavorando con lei." "Grazie del suo aiuto, Sharika. Lei è un buon medico." "Lei invece è un grande medico." Elliott scosse il capo, imbarazzato per il complimento. La giovane indiana fece un passo avanti. "Pensavo... pensavo che forse potevamo cenare insieme, stasera", disse, e d'un tratto la sua bella pelle bronzea si tinse di scarlatto. Era timida e le era costato molto fargli quella proposta. "Mi dispiace, non posso", replicò lui, stupito della piega che aveva preso la conversazione. "Capisco." Sharika tacque per qualche secondo, poi aggiunse: "Il mio stage termina ufficialmente alle sei. Stasera non sarà più il mio superiore e io non sarò più alle sue dipendenze. Se è questo che la trattiene..." Elliott la guardò meglio. Che età poteva avere? Ventiquattro, al massimo venticinque anni? Non era mai stato ambiguo con lei e si sentiva a disagio. "No, non si tratta di questo", replicò. "Strano", ribattè Sharika. "Ho sempre avuto l'impressione di non esserle indifferente." Che cosa doveva risponderle? Che una parte di lui era già morta e l'altra sarebbe morta presto? Che il luogo comune secondo il quale l'amore non avrebbe età è solo una cazzata? "Non so che dirle." "Allora non dica niente", mormorò offesa lei, voltando le spalle. Quando si era già allontanata, si ricordò di una cosa. "Ah, dimenticavo", fece senza tornare sui suoi passi. "Il centralino ha ricevuto un messaggio per lei: il suo amico Matt la sta aspettando da mezz'ora e comincia a spazientirsi." Elliott uscì dall'atrio dell'ospedale e prese un taxi al volo. Aveva appuntamento con Matt per il pranzo ed era in gran ritardo. Come esistono in amore, così a volte i colpi di fulmine esistono anche nell'amicizia. Matt ed Elliott si erano conosciuti quarantanni prima in circostanze particolari. In apparenza erano agli antipodi: Matt era un francese estroverso che amava le belle donne e i piaceri della vita, Elliott un americano piuttosto riservato e solitario. Insieme avevano comprato un'azienda vinicola nella Napa Valley, il "perigord della California". I vini che producevano, un gradevole cabernet sauvignon e uno chardon-nay al gusto di ananas e melone, si erano conquistati una buona reputazione grazie a Matt, che aveva cercato accanitamente di promuoverli in tutti gli Stati Uniti e anche in Europa e Asia. Per Elliott, Matt era l'amico che avrebbe continuato a essergli amico quando anche gli altri si fossero tutti dileguati, quello che avrebbe chiamato in piena notte se avesse avuto un cadavere di cui liberarsi. Intanto, era in ritardo e si sarebbe preso una bella sgridata. Il raffinatissimo ristorante Bellevue, dove pranzavano regolarmente, si trovava lungo l'Embarcadero ed era affacciato sul mare. Con un bicchiere in mano, Matt Delluca aspettava da mezz'ora sulla terrazza all'aperto da cui si godeva la panoramica del Bay Bridge, di Treasure Island e dei grattacieli del quartiere finanziario. Stava per ordinare un terzo bicchiere, quando gli squillò il cellulare. "Ciao, Matt", lo salutò Elliott nell'auricolare. "Scusami, sono un po in ritardo." "Tranquillo, col tempo ho finito per abituarmi alla tua idea molto particolare di puntualità." "Non mi dire! E ciononostante ti accingi a farmi una scenata?" "No, no, vecchio mio! Sappiamo tutti che sei un medico e salvare vite umane ti da ogni diritto." "Proprio come pensavo. Sei incazzato." Matt non potè fare a meno di sorridere. Con il cellulare incollato all'orecchio, lasciò la terrazza ed entrò nella grande sala del ristorante. "Vuoi che ordini per te?" chiese avvicinandosi al banco dei crostacei. "Ho qui davanti un granchio vivo che sarebbe onorato di fungerti da pasto." "Ti do carta bianca." Matt chiuse la comunicazione e, rivolgendo un cenno al maitre, decise la sorte della sfortunata creatura. "Un granchio arrosto", ordinò. Un quarto d'ora dopo, Elliott attraversò di corsa la spaziosa sala arredata con specchi e preziosi pannelli di legno. Dopo avere inciampato nel carrello dei dolci e urtato senza volerlo un cameriere, raggiunse finalmente l'amico al solito tavolo. "Se tieni sempre alla nostra amicizia", lo avvertì prima che aprisse bocca, "evita di pronunciare nella stessa frase le parole 'ancora e 'ritardo." "Non ho detto niente", protestò Matt. "Abbiamo prenotato questo tavolo per mezzogiorno e guarda che razza di ora è! Ma non ho detto niente. Allora, come è andato il tuo soggiorno in Cambogia?" Elliott aveva appena cominciato a parlare, quando fu colto da un attacco di tosse. Matt gli porse un bicchierone di acqua frizzante. "Non tossisci un po troppo?" domandò accigliato. "Non ti preoccupare." "Invece mi preoccupo. Non è il caso che tu faccia un controllo, come una TAC o qualcosa del genere?" "Il medico sono io", replicò Elliott aprendo il menu. "Allora, cosa mi hai ordinato?" "Sia detto senza offesa, ma hai una brutta cera." "Dobbiamo continuare ancora per molto con questi complimenti?" "Mi preoccupo per te: lavori troppo." "Sto bene, ti ho detto. Solo, la missione in Cambogia mi ha stancato un po." "Non saresti dovuto andare", fece Matt imbronciato. "Per la miseria, l'Asia..." "Ti sbagli: è stata un'esperienza che mi ha arricchito molto, anche se laggiù mi è capitata una cosa strana.'' "Cosa?" "In Cambogia ho conosciuto un vecchio che aveva motivo di essermi riconoscente e che, come un genio uscito dalla lampada, ha voluto sapere quale fosse il mio più grande desiderio." "Che cosa gli hai risposto?" "Gli ho chiesto una cosa impossibile." "Di poter vincere finalmente una partita a golf?" "Piantala." "Allora?" "Gli ho detto che avrei voluto rivedere una persona..." In quel momento Matt capì che Elliott parlava sul serio e smise di scherzare. "Quale persona?" domandò, sapendo già la risposta. "Ilena." Di colpo i due furono colti da una gran tristezza. Ma Elliott non voleva lasciarsi abbattere dalla malinconia e, quando il cameriere portò gli antipasti, riprese a parlare, raccontando all'amico l'incredibile storia del flaconcino di pillole e dell'incubo sconvolgente che aveva avuto la notte prima. "Se vuoi un consiglio", disse Matt cercando di suonare rassicurante, "dimentica questa storia e prenditi una pausa." "Non puoi immaginare quanto mi abbia turbato quell'incubo e quanto sembrasse reale. Mi è parso così... così strano rivedere me stesso a trent'anni." "Credi che siano state le pillole a farti quell'effetto?" "Cos'altro?"

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.