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Antropologia della morte PDF

566 Pages·1976·15.569 MB·Italian
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LOUIS-VINCENT THOMAS Antropologia della morte GARZANTI Traduzione dal francese di Arnaldo Rressana, Renata Molinari e Donella Piccioli a cura di Mario Spinella Prima edizione; novembre 1976 Titolo originale dell’opera ; « Anthropologie de la mort » © Payot, Paris 1975 © Aldo Garzanti Editore, 1976 Printed in Italy INTRODUZIONE Perché un libro sulla morte? Vi sono almeno tre ragioni, anzi tre gruppi di ragioni, a favore di una simile scelta. In primo luogo la morte continua ad essere, per eccellenza, l’avvenimento più universale e irrefutabile: la sola cosa di cui siamo veramente sicuri, anche se ne ignoriamo il giorno e l'ora, il perché e il come, è che si deve morire, Da questo punto di vista la morte appare più radicale della vita: il numero dei vivi rappresenta infatti, potenzialmente, solo una minima per­ centuale di quanti avrebbero potuto nascere, ma la morte col­ pisce ogni uomo senza eccezioni, tanto è vero che l'essere uma­ no, come sottolineava Heidegger, è un essere-per-la-morte. Vita e morte sono antinomiche, eppure si dimostrano stranamente indissociabili l’una dall'altra: il bimbo che nasce porta in sé una promessa di morte, è già un-morto-in-potenia; ma chi muore ha la speranza di sopravvivere nella memoria di chi resta e, quando ne abbia, di perpetuarsi parzialmente nel pa­ trimonio genetico dei discendenti. Bisogna dunque affermare la necessità della morie: e forse la scienza moderna sta risco­ prendo ciò che è sempre stato sostenuto dalle civiltà arcaiche. La morte, per il biologo, è ciò che consente quotidianamente la sopravvivenza della specie (se il grano non muore, aggiun­ ge il poeta...) e ne assicura, con il rinnovamento, le possibilità di mutazione. In secondo luogo, troppo spesso l'uomo d'oggi assume —- nei confronti di quella che Paolo definiva « la regina dei terrori * — una posizione equivoca, una curiosa mescolanza di fuga e negatività. Già Bossuet, nel suo sermone sulla morte del 1666, sottolineava: « È una singolare debolezza dello spirito umano il fatto che la morte non gli sia mai presente, per quanto gli si metta in mostra da ogni parte e in mille modi... I mortali si preoccupano di seppellire il pensiero della morte con la 5 stessa cura con cui sotterrano i morti. * Ed è un fatto che se ritorno d’oggi sembra sul punto di superare, non certo senza traumi, ì tabù del sesso {benché la repressione sessuale, in Occidente, rimanga spesso fin troppo evidente) si trova strana­ mente bloccato davanti al tabù della morte. Parlare della morte, si dice, è segno d’uno « stato d’animo morboso, confi­ nante con il macabro D'altra parte la ricerca del macabro si può definire, sotto molti aspetti, come un comportamento dì fuga, come un rifiuto travestito in forma tragicomica.1 2 « Il pubblico, generalmente, quando gli si parla della morte si aspetta due cose: 1°) di sottrarsi alla noia mediante una forte sensazione; 2") di trovarsi reinstallato, subitO'dopo, nella sua poltrona ( relax > per mezzo di un finale rassicurante. Tra lo scrittore e la società esiste una tacita intesa: < Conto su di te, dice la società, affinché tu mi fornisca degli strumenti con cui utilizzare, dimenticare, ritardare, mascherare o trascendere la morte. Ti ha assunto per questo. Se non eseguirai il tuo com­ pito, sarai licenziato (cioè ‘non sarai più letto’) >. »3 4 II modo più maldestro di negare la morte, probabilmente, è di vederla come una pura potenza negatrice, di ridurla a una pura e sem­ plice distruzione della vita: la morte muta la presenza in as­ senza facendo dell’essere un non-essere o, al più, un labile ri­ cordo. In breve, come diceva cosi bene V. Jankélevitch, « mo­ rire non significa diventare altro, ma diventare nulla o — il che è lo stesso — diventare assolutamente altro, dato che, se il relativamente altro è ancora un modo d’essere, l’assolutamcn- te altro, che è la contraddizione del medesimo, si comporta nei suoi confronti come il non essere in rapporto all'essere •* Non ci si stupisca che un simile modo di vedere, nonostante la prospettiva rassicurante o consolante delle religioni monoteì- ste, limiti la morte aWat/venimento-che-mette fine-alla-vita. In­ tesa cosi, la morte occupa nel pensiero occidentale una posizio­ ne ambigua: le si accorda troppo perché, si dice, essa annienta 1 H. Rebou). Le diseours du vietlard sur tu mori, « L’in format ion psy- chologique », 44, 4° trimestre 1971, p, 75. 2 b il caso di P. I.éautaud che confida a R. Mail et che gli sarebbe pia­ ciuto riposarsi sopra la tomba della sua amante per «pensare a ciò che capi­ tava lì sotto»: o di Baudelaire che canta la putrefazione del cadavere: « Alors ò ma beauté, dites à la vermine qui vous mangera de baisers, » 6 anche il caso dì J- Ensor il cui celebre quadro * Autoritratto nel 1960 * rap­ presenta uno scheletro vestito. 3 A. Fabrc-Luce, La mort a changé, Gallimard 1966, p. 12, 4 V. Jankilevitch, Pkilosophie première, 1954, pp. 55-56. 6 l’essere; non le si dà abbastanza perché la si riduce ad un avvé­ niménto momentaneo; e vedremo più avanti che, per luomo moderno, i morti non sì trovano mai al loro posto e ossessiona­ no l'inconscio dei sopravvissuti che si sforzano di scordarli. Ma il rifiuto del dialogo rende i defunti più crudeli, e soprattutto più presenti. Per un curioso paradosso ci si potrebbe chiedere se l'uomo occidentale non tema la morte perché si rifiuta di credere nell’onnipotenza della vita. Invece il Negro-africano — del quale sono noti il modo ricco e originale e il fervore con cui esalta la vita — minimizza la portata della morte fa­ cendone un immaginario che interrompe provvisoriamente re­ sistenza del singolo e risparmia, trasformandola in un avveni­ mento che riguarda solo l'apparenza dell’individuo, la specie sodale (credenze nell’onnipotenza degli antenati, conservazio­ ne del Totem del clan grazie alla reincarnazione...): il che gli consente non solo di accettarla ed assumerla, anzi di ordinarla — secondo la definizione di Jaulin — integrandola nel pro­ prio sistema culturale (concetti, valori, riti e credenze), ma anche di includerla ovunque (che è il metodo migliore per do­ minarla), di scimmiottarla ritualmente nell'iniziazione e di trascenderla grazie a un gioco appropriato e complesso di sìm­ boli. In breve, il Negro non ignora la morte; al contrario, la afferma smisuratamente (abbiamo appena detto che ìa inclu­ de ovunque). Presso di luì, e per lui, « la morte è la vita che perde, che è stata giocata male. La vita è la morte domata a livello sociale prima ancora che a quello biologico E in realtà, se si osservano i miti, le credenze, i fantasmi e l'attività creatrice degli uomini di ieri e di oggi, ci si accorge presto del ruolo privilegiato riservato alla morte, ruolo in cui si esprime la positività di quella che è considerata come l’eterna e spietata distruttrice: un’opera recente non ha forse indicato come categorie estetiche fondamentali della morte l’evasivo, il crepuscolare, il funebre, il lugubre, l’insolito mentre il fan­ tastico, il meraviglioso, il demoniaco, l’mfernaie, l’apocalittico, il macabro, il diabolico sarebbero le categorie dell’aldilà? * Al tempo stesso, la vita moderna porta in sé un certo numero d’elementi (credenze, tecniche, atteggiamenti) che obbligano l’uomo d’oggi a rivedere alcuni punti di vista secolari a pro­ posito della morte. Le guerre non sono mai state così micidiali 5 R. jaulin, La mort tara, Plon 1967, p, 6*. 6 M. Guiomar Principe* d'unt etthétique d* t<i mori, J. Corti 1967. 7 né le minacce di polluzione o di inquinamento nucleare tanto drammatiche, né la corsa agli armamenti è mai stata più one­ rosa e pericolosa che ai giorni nostri, in cui lo stesso disprezzo dell'uomo per l'uomo si fa sempre più evidente (ecocidio, ge­ nocidio ed etnocidio; recrudescenza della criminalità, degli infortuni sul lavoro e degli incidenti stradali; intensificazione dello sfruttamento capitalistico che, ossessionato dalla riduzio­ ne dei margini di profitto, arriva a commercializzare persino la morte...). Inoltre, per motivi che hanno poco a che vedere con ragioni di carattere economico, all’uomo è tolta la sua stessa morte: muore da solo, all’ospizio o all’ospedale, senza preparazione (esistono manuali di comportamento sessuale ma non sull’arte del morire bene); i funerali e i riti funebri perdo­ no d'importanza:7 t cadaveri sì fan mi sempre più ingombranti e ì cimiteri pongono agli urbanisti problemi sempre più com­ plessi. Da parte sua lo scienziato, sottolineando l’insufficienza delle tradizionali prove del decesso (arresto cardiaco e della respirazione), suggerisce di completarle con la constatazione dell’assenza totale di attività cerebrale che — verificata da un tracciato piatto dell’elettroencefalogramma — dimostri una assoluta mancanza di un qualsiasi tipo di riflesso per un pe­ riodo di tempo * adeguato a, Che pensare allora della defini­ zione cristiana secondo cui la morte è la separazione dell’anima dal corpo? E come interpretare, se non in termini simbolici, la sentenza dell’Ecclesiaste (xn, 7): « Che la polvere ritorni al­ la terra da cui era stata presa e che lo Spirito ritorni a Dio che l’aveva dato *? Ma si stanno verificando anche altri cam­ biamenti, ci si offrono nuove prospettive, abbiamo nuove spe­ ranze: le pompe funebri sì trasformano in servizi tanatologi- ci, si edificano complessi funerari (atanei), sì inserisce nei co­ dici una nuova deontologia (trapianti, donazioni di organi, traslazioni di cadaveri), i tanatotecnici limitano gli effetti degradanti della tanatomorfosi facilitando così il lavoro sui morti, la Chiesa abolisce le sue proibizioni relative alla cre­ mazione... e si profila già, in un ipotetico avvenire, l’eventua­ lità dell'ibernazione e della rianimazione. 7 A questo proposito l'evoluzione dei calendari si dimostra assai ricca d'insegnamenti. Una volta il 2 novembre era dedicato alla Festa dei Morti; in seguito è diventalo, più prosaicamente. Giornata dei defunti; oggi ci si accontenta di un termine laconico come • Defunti », la cui asciuttezza fa pensare sd un ordine nuovo. 8 Per un'antropotanatologia I problemi della morte riguardano, a vario titolo, personag­ gi molto diversi tra loro, come: il teologo e il filosofo, lo psi­ cologo, lo psicanalista e lo psichiatra; il biologo e il biochi­ mico; il demografo e il sociologo; il giurista, il criminologo e l'economista; lo studioso di estetica e il critico d'arte; lo storico e il geografo; senza trascurare il pTete, il medico {coinè tecnico della salute e come medico legale), l’assicuratore, l’ad­ detto ai servizi funebri, gli infermieri, gli urbanisti... Ognu­ no considera la morte in generale — sia degli altri che la pro­ pria — secondo un’ottica particolare, che gli deriva dalla sua professione (e dunque dal suo codice deontologico), dall’ordi­ ne dei suoi interessi intellettuali, dalla sua ideologia o da quel­ la del gruppo cui più specificatamente appartiene. Perciò ri­ schia di avere, sul nostro problema, un punto di vista parzia­ le, interessante e magari originale, ma inadeguato ai fini di una sua esauriente comprensione. Se dunque si vuole uscire, come dice E. Morin,® dalle « geremiadi sulla morte, dal sospiro ar­ dente in attesa della dolce rivelazione religiosa, dal manuale di serena saggezza, dal saggio < patetico i, dalla meditazione metafisica che esalta ì benefici trascendenti della morte o dal gemito sui suoi non meno metafisici misfatti; se si vuole uscire dal mito, dalla falsa evidenza e dal mistero fasullo, è neces­ sario copernicanizzare la morte. Ciò significa impegnarsi non già in una mera descrizione psicologica, ma in una scienza totale che sola potrà consentirci di conoscere contemporanea­ mente la morte attraverso l’uomo e l'uomo attraverso la mor­ te. * E l’antropologia vuole essere appunto la scienza dell'uo­ mo per eccellenza,’ quella che cerca le leggi universali del pensiero e della società e considera le differenze spazio-tempo­ rali per giustificarle, pur tentando di ridurle a modelli uni­ versali e astratti, a schemi esplicativi il più possibile generali senza trascurare, per quanto possibile, di riferirle anche al mondo non-umano. Si tratta dunque di situare l'uomo non solo secondo i sistemi socio-culturali che — hic et mine —- egli si è scelto, ma di considerarlo anche come « momento » (ai 8 L'fiorume et la mori, Seuil 1970, p. 16. 9 0, più modestamente, tanto il tronco comune a tutte le scienze umane quanto 0 meno della loro eventuale sintesi. 9 suoi occhi privilegiato) iieH’avventura universale della vita, l/uoino, paragonato all’animale, è innanzitutto un manipola­ tore /costruttore (homo faber) e — saremmo tentati di aggiun­ gere — un produttore di armi che uccidono; con lui vediamo espandersi, grazie ad un linguaggio articolato, la funzione lin­ guistica (homo loquax): mai la padronanza del rapporto si­ gi! ilìcante-signibeato si era spinta così lontano. Ma fin qui non si potrebbe ancora parlare di rottura, dì soluzione di continui­ tà; le differenze rispetto alluminale, benché assai rilevanti, non sono tanto d’ordine naturale quanto piuttosto d’ordine quantitativo. Anche Laminale, infatti, sì dimostra a volte ca­ pace di intelligenza fabbricatrice e non ignora alcune tecni­ che di comunicazione. Resta allora un altro tratto distintivo, forse più pertinente; l’uomo, sì potrebbe dire, è Vanimale che seppellisce i propri morii. Si deve parlare, al riguardo, di una « breccia bio-antropologica » 10 che introdurrebbe un’autentica specificità dell’uomo? L’atteggiamento di fronte alla morte — e al cadavere — non sarebbe in definitiva quell’aspetto della sua natura per cui l’uomo si sottrae parzialmente alla natura e diventa animale acculturato?11 « Ciò che definiamo la cultura di un popolo è, almeno in parte, lo sforzo eh’esso compie per reintegrare nella propria vita collettiva la materialità del ca­ davere, le ossa prive della carne che rappresenta la vita, per scongiurarne gli effetti distruttivi: alla distruzione nichilista della natura di cui Darwin dice che uccide più di quanto con­ servi, le società rispondono-controllando la putrefazione del supporto reale della vita, la carne. La mummia, lo scheletro, il teschio, che ne è la più antica metafora, rappresentano me­ diante il loro contrario ciò che della realtà umana non è più visibile né palpabile, le sue credenze, i suoi valori, la sua < cultura >. » 12 L’antropologia tauatologica deve necessariamente essere 10 1.'espressione è di E. Morin. 11 A questo proposito, si potrebbe aggiungere che tra tutti gli esseri viventi l’uomo rappresenta la sola specie animale cui la morte è onnipre­ sente durante tutta la sua vita (e sia pure solo a livello di fantasmi); la sola specie animale che accompagna la morte con un rituale funebre com­ plesso e ricco di simboli; la sola specie animale che ha potuto credere, e spesso ancora crede, alla sopravvivenza e alla rinascita dei defunti; in breve, la sola specie per la quale la morte biologica, fatto di natura, si trova con­ tinuamente superata dalla morte come fatto di cultura. 12 f- Duvignaud, Le langage fierdu, puf 1973, pp. 275-27S. XO comparativa, poiché cerca l’unità dell’uomo nella differenza o, meglio, ne costruisce l’universalità a partire dagli scarti. Da qui la necessità dei confronti. A questo scopo avremmo potuto scegliere fra tre possibilità. Mettere a confronto il rurale (ar­ caico) e l’urbano: ma così si correva il rischio di non andare troppo lontano, tanto più che è in corso un'urbanizzazione ac­ celerata delle campagne. Confrontare, per l’Occidente, un pe­ riodo storico del passato con quello contemporaneo e utiliz­ zare una serie di studi preziosi (M. Vovelle, Piétè baroque et déchrislianisation en Provence au X VIIP siècle: F, Lebrun, Les hommes et la mori en Anjou aux XVIP siècle et XVI1P siècle) ma numericamente insufficienti 11 e troppo poco diver­ sificati rispetto alle epoche e alle zone geografiche considerate. Restava una terza possibilità, quella che abbiamo scelto: apri­ re un confronto tra una società arcaica contemporanea sulla quale siamo adeguatamente informati (nel nostro caso il mon­ do tradizionale 13 14 negro-africano) e la società industriale, mec­ canizzata, produttivistica (la nostra). Un tale procedimento ha ovviamente un mero valore esemplificativo e non consente ge­ neralizzazioni, ma permette di porre in risalto tutta una serie di differenziazioni assai note a livello di credenze, atteggia­ menti e riti, sia sul piano degli individui che su quello delle collettività. Ma al di là delle differenziazioni spazio-temporali 13 M. Vovelle, Mourir autrejois, Gallimard-Juillard 1974, distingue a ra­ gione la morte subita, che ha attinenza con la demografia, la morte vìssuta, che fa parte della sfera dell'esperienza individuale, e il discorso sulla morte, che costituisce un documento storico, rivelatore della mentalità di un'epoca. 14 Non si deve fraintendere il senso della parola « tradizionale ». In nessun caso essa sta a indicare l'idea di purezza, d'autenticità, di speci­ ficità, colte « ne varietur », al di fuori dei condizionamenti socio-storici. Con « tradizionale » si intende l’insieme delle pratiche che nel corso di una data epoca, abbastanza lontana e prolungata nel tempo, si sono radicate al punto da diventare, oggi, abitudini o addirittura automatismi che, di conse­ guenza, non si mettono più minimamente in questione; si è prodotto attual­ mente uno slittamento semantico del termine « tradizionale »: esso comincia a venire considerato in quanto tale solo a partire dal momento in cui pra­ tiche fin qui convenzionali si dimostrano inadatte o non funzionali in rap­ porto all'adozione di un genere di vita relativamente nuovo, causata sia dal contatto di altre culture con tecniche più avanzate (condizioni esterne) che da trasformazioni interne di tipo qualitativo o dalla combinazione di en­ trambi i fattori. Cosi alcuni aspetti della cultura di partenza, per la loro inadeguatezza rispetto a pratiche nuove, diventano dei settori tradizionali, che talvolta in un tempo più o meno breve deperiscono e cadono a livello di folclore. Ora, le civiltà » tradizionali » negro-africane, nonostante l'im­ patto coloniale, hanno conservato — in particolare nell'ambiente rurale — una sorprendente vitalità. II è possibile riscontrare anche una serie di costanti in comune. Cosi, per esempio, l'orrore per il cadavere in decomposizione {mascherato ai giorni nostri dal pretesto dell’igiene); l’asso­ ciazione tra la morte e [‘iniziazione (soprattutto in caso di guerra); il prestigio accordato alla morte-feconda (rischiare la propria vita o dare il proprio sangue per la patria, per la fede, per un ideale politico); la persistenza delle credenze nel­ la morte-resurrezione (ruomo sopravvìve a se stesso per mezzo dell'eredità cromosomica; si preoccupa di trasmettere il pro­ prio nome; spera nell’aldilà, se è credente); l'importanza ac­ cordata alla morte-madre (amore per la Terra-madre in cui si spera dì venire sepolti : « La terra, » scrive E. Morin,15 « vie­ ne dunque maternizzata da un lato come sede delle meta­ morfosi di morte-nascita e dall’altro come terra natale »); il ruolo della morte nella vita economica (mestieri attinenti alla morte) o nell’arte funeraria (la morte nell’arte e l’arte nella morte); le relazioni tra i morti e ì vivi (l’occultismo e lo Spi­ ritismo, la credenza nell’immortalità dell’anima, la comme­ morazione annuale dei defunti, il culto dei santi come sosti­ tuto del culto degli antenati...) sono altrettante sopravvivenze « primitive » — nonostante i cambiamenti dovuti alle diffe­ renti condizioni di vita — presemi nella civiltà contempora­ nea (a meno che non vi si debbano vedere, con C. C. Jung, archetipi universali o infrastrutture permanenti dell’inconscio collettivo). Si possono così scoprire, dietro la diversità di alcu­ ni comportamenti, identiche finalità. Si prenda ancora come esempio la tanatomorfosi. Contro le conseguenze negative del­ la decomposizione « tutte le comunità umane reagiscono ten­ tando di rovesciare i termini della spietata equazione; l’uso della doppia sepoltura che incontriamo, come attesta H. Hertz, presso numerose società umane chiede alla terra di compiere un atto d'imputridimento che permetta di disseppellire lo scheletro liberato dalla carne per reintegrarlo nella comunità sotto la forma del solo simbolo, capovolto, di ciò che persiste, cioè le ossa, la parte di terra che è in noi. Le maschere fune­ rarie della Polinesia e le teste rattrappite degli Jivaros ten­ dono indubbiamente allo stesso fine. E le mummie egizie, peruviane, messicane non sono anch’esse un tentativo per de­ bellare la morte? Le raffigurazioni dei morti non sono fot se, 15 E. Morin, Uhomme et la mort dans fkistnire, Seuil 1971, p. 121. 12

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